Alle volte, il tesoro che cerchiamo è più vicino di quanto si creda. Esistono persone straordinarie attorno a noi, gente allo stesso tempo comune e non comune, che ha fatto la storia di un paese, di un’epoca, del mondo.
Qualche volta è una sola parola nel deserto che ci avvicina a queste anime. Un momento che ci chiama per nome. Il coraggio di “perdere” con loro del tempo, ci restituisce il valore dell’intera esistenza.
Pochi giorni fa, all’età di 100 anni, una di queste straordinarie persone è venuta a mancare.
Nella foto, quando mi invitò a leggergli ciò che segue, pensieri appuntati durante il nostro incontro avvenuto nel giugno 2012.
Alla grande Famiglia di Angelo, con gratitudine
Sono davanti a un uomo di 98 anni. Per la prima volta, in età ragionante, ho la possibilità di parlare con uomo tanto vecchio. È lo zio di mio padre che tutt’oggi vive a Verona, città in cui è nato.
“11 giugno 1943.”
Sono le prime parole che riesce a darmi una volta seduti al tavolo.
Mi chiedo se mai in vita riuscirò a ricordare una data per così tanto tempo. Rammento che probabilmente la guerra, l’instabilità, la paura, l’insicurezza di poter tornare a casa, hanno stimolato l’amore per il ricordo oltre che per le altre vite.
“Quando sono partito non avevo paura di niente. Avevo un coraggio che non si sa.”
Qualcosa in quest’uomo si affievolisce, come una tenera fiammella che si riaffaccia sulla sua miglior luce. Tornare a vedersi giovani e incoscienti riannoda al cuore i passi sostenuti in vita, la necessità di crescere, donare, invecchiare. Il prezzo pagato per l’odio e la conquista ottenuta dal coraggio. Un tramonto non è mai stato meno imponente di un’alba e anzi, qui davanti ho la prova che il contrario si avvicina molto più alla verità.
Noto con gioia l’impossibilità di trovare le parole per descrivere ciò che l’anima prova. L’uomo è da sempre capace di andare al di là di ciò che è, e di ciò che vive.
Beve un sorso di vino e dice: “A Pantelleria ero celibe e Mussolini voleva trattenere lo stipendio dei celibi come me. Ma come potevo sposarmi in guerra?”
Ricordo di aver sempre sentito dai profumi emanati dal cuore di questi soldati e prigionieri di guerra, una sconvolgente forza interiore. Una forza che oggi non saprei qualificare in niente e quasi nessuno di coloro che conosco. Con “forza interiore” non intendo una fede basata su tradizioni e riti religiosi, come a volte ci sembra abbiano vissuto i nostri avi; ma la gioiosa volontà di vivere, pur nella miseria, pur in disumane condizioni. Questa volontà di restare attaccati al mondo per guadagnare ancora un minuto di amore, è l’insegnamento più grande che esista.
Nessun libro può spiegarlo in lettere, è la più grande delle sapienze, quella vissuta e testimoniata con la propria storia.
Ma un altro elemento colgo in questa semplice frase interrogativa, quasi ironica se davvero di ironia possiam parlare… “Ma come potevo sposarmi in guerra?” Il matrimonio. Il profondo desiderio del Legame come inizio della vita. Il muovere ogni arto nel modo giusto per poter tornare a respirare la polverosa ma accogliente aria di casa, il marchio del proprio paese, e cominciare finalmente una nuova strada.
Oggi il matrimonio è una marcia indietro. Se ne sente discutere come un punto finale, più che un punto iniziale.
Un “nec plus ultra” del vivere.
In questa epoca, si affaccia sempre più nel pensiero comune, l’idea del matrimonio come prigione, come annullamento della libertà e della vita, come il più grande ostacolo verso la felicità. Ma per chi la prigionia, quella vera, l’ha vissuta sulla pelle, sa che il Legame non è assolutamente nulla di tutto questo. Forse i concetti che abbiamo oggi di fame, sete, libertà, felicità, vita, sono stati snaturati nel tempo, dalla disonestà e dall’ozio.
“Quando bombardavano dal mare non potevi vedere niente. Aspettavi. Arriva. Arriva. Erano attimi.”
Lo afferro negli occhi mentre da allora, con lo sguardo, non ha ancora smesso di chiedere pietà e perdono.
Pietà a me, nemico di terra dal mare.
Perdono a me, figlio sofferto.
Pietà per la sua uniforme.
Pietà per la sua gente.
Pietà per la sua vita.
Perdono per la radice del male.
Perdono per la vergogna.
Perdono per la sua vita.
“Da lì fui condannato a fare il turista in guerra nel mediterraneo.”
Turista, sinonimo di prigioniero, come a voler riconoscere ancora una volta la tragica incolpevolezza nell’essere lì. Una guerra che non voleva combattere e che lo ha gettato in mezzo alla polvere, alle bombe, alle miserie dei campi di concentramento sparsi per tutto il basso mediterraneo.
Sentire. Ascoltare. Vedere il rispetto di questi due vecchi occhi blu che mi guardano…
È uomo di altro onore.
Si rivolge a me, chiede il mio punto di vista.
Io, che ho studiato poco alle superiori.
Io, che mi sono laureato con un punteggio basso per poca applicazione.
Io, che di tutto quello che è lui, non sono un capello.
Lui che viveva la guerra con la fedeltà di un colonnello.
Lui che ogni giorno viveva la paura della morte con serenità.
Lui, che per camminare ancora nella sua storia, si sistema gli occhiali e mi offre un altro bicchiere di vino.
“È brutta la prigionia. La prima cosa che mi hanno portato via è stato l’orologio. In quegli anni ho visto cose inenarrabili. La sera eravamo costretti ad andare in gabinetto tutti assieme. La guerra è brutta. È giusto dire così, anche se ho vissuto tanta della mia vita in tempi di guerra. Però mi sono sempre fatto rispettare e voler bene. Una volta un militare mi ha mancato di rispetto in presenza di civili. L’ho punito. Poi l’ho ritrovato come soldato ad Algeri. Aveva la possibilità di vendicarsi, ma non lo fece. Aveva riconosciuto il suo errore.”
Fa una pausa e torna a fissarmi negli occhi: “E’ giusto che tu giovane, sappia queste cose.”
Passiamo un bel minuto in silenzio, poi torna la sua voce fine:
“Oggi è cambiato tutto. Ci sono i computer. C’è tanta burocrazia. Siamo nelle mani di Dio, perché la corruzione è dappertutto.”
Parla con riguardo e signorilità. Si muove con lentezza e saggezza. È un anima dall’educazione nobile. Porta un volto elegante, quello di un mondo antico, quello della storia da cui provengo.
Si alza. Lo aiuto per un braccio.
Il secolo lo ha portato fino a me, dopo battaglie e amori, devastazione e onestà.
Verona oggi è un’altra città.
Verona ne porta i segni.
Verona ne porta i sogni.
Mi allontano mentre mangia un caldo minestrone di verdura.
Torno indietro. Lo abbraccio.
Ci abbracciamo.
Il vecchio e il nuovo.
Guerra e pace.
Macchina da scrivere e computer.
Il libro di un secolo e l’abbozzo di una vita.
Tutto, in uno.