L’ANGOLINO ALTO DEL JAZZ


Lo stenditoio è ancora sotto le nuvole. Il vento dell’ovest, quello delle coste portoghesi, soffia deciso. Di tanto in tanto una pausa di foglie verdi. Una tregua che dura quei secondi appena, giusto per farmi alzare la testa e guardare di là. Ancora soffi. Ancora. Si muove la tenda. Adesso anche la lampada appesa al soffitto. Come ogni volta si scolla il vertice sinistro della tela scura, quella che mostra la scritta bianca, in lettere spesse come il mio dito mignolo: “JAZZ TALLERES, MATRICULA GRATUITA, INFO E INSCRIPCION.” Mi piace solo la parola “Jazz” di questo poster. Non ho ben capito chi l’abbia piazzato qui, in salotto, accanto alla carta geografica del mondo. Tutte le volte pare sia colpa dell’Oceania che l’angolino sinistro si scolli. Lo rimetto alla meno peggio. Che faccio adesso? 21,37. L’orologio scandisce i suoi colpi non più di un secondo alla volta. L’articolo sull’agricoltura biologica non è completato. Non riuscirò mai a consegnarlo. Proverò a tornarci sopra in un altro momento, forse. Lo stenditoio di Magdalena è sotto i nuvoloni. Ci sono appese un paio di scarpe azzurre senza lacci e la camicia a maniche corte che portava ieri in biblioteca. Credo di avere un approccio oggettivo verso la situazione generale se dico che lei non ha mai respinto la mia compagnia. Dopo il nostro casuale primo incontro a lezione, ascolto la sua voce solo nei giorni di sorte. Muove le labbra lentamente. Io la guardo e faccio finta di non innamorarmene. A fine intervallo se ne va anzitempo. Sorride. D’un tratto si ferma e dice: “Mi devi ancora un caffè.” Nemmeno si gira ad osservare di che colore siano le mie guance o di come tremino queste mani! Perdo di oggettività ad ogni parola che scrivo. Questo sì, mi pare oggettivo. Magdalena non è mai stata diversa. Mi lascia tutte le volte così, come biancheria: a penzoloni. Il suo stenditoio è fuori dalla terrazza, entra giusto a pelo perché i panni non struscino sulla parete scolorita del palazzo. Non c’è da scandalizzarsi, gli appartamenti degli universitari sono tutti uguali del resto. E la vita che ci trovi dentro, anche guardandola da fuori, è una di quelle vite da accampamento provvisorio: casa mai troppo grande, muri mai bianchi, armadi difettosi. Ogni cosa dà l’aria di poter pericolare da un momento all’altro, invece si mantiene miracolosamente in piedi e funzionante. Giorno dopo giorno. Stagione dopo stagione. Almeno fino ad oggi. “Speriamo che regga fino alla fine…” Tipica espressione di noi compagni di vita precaria. In quelle quattro mura possiamo bere e litigare, mettere in comune il futuro, scommettere a chi sente più profumi, giocare a chi ha messo via più sogni… ma nessuno perde mai di vista la realtà delle cose. Ci si accontenta di andare avanti. Si esce. Si entra. E’ un po’ casa nostra e un po’ casa anche degli altri. E’ vita di famiglia, anche se mai a sufficienza per condividere proprio tutto. Il frigo suddiviso in scompartimenti, in fondo, ne è una semplice prova. Gli angoli della casa sono a volte di tutti, più spesso di uno solo ma non chiedetemi perché. Una regola non esiste a tutto questo, bisogna solo farci il callo. Minaccia di piovere. Lo stenditoio di Magdalena è ancora lì fuori pieno di cose stese e allineate. Asciugamano bianco da bidè. Fantasmini rosa chiaro. Jeans scuri a cavallo basso. Non sa che viviamo di fronte. Non sa che mi piace la poesia in prosa. E neppure che domani mattina, tutto ciò che è steso, potrebbe avere un terribile odore piovano. Sono passate le 22 da qualche minuto. Una stella spunta dal profilo del viale alberato, il primo lumino sopra i teloni triangolari di Nerviòn Plaza. La luna respira a malapena sotto le nuvole. Magdalena non tirerà dentro lo stenditoio e probabilmente non pioverà. Il vento manda sbuffi continui. L’angolino alto del “Jazz” cede per l’ennesima volta sotto la misteriosa influenza della East Coast australiana. Non so se è oggettivo ma ho l’impressione che quel debole angolino sinistro mi rappresenti definitamente. Magdalena sfiora i miei occhi coi suoi ed io mi smarrisco, ripiego nella timidezza. Non fiato. No so dirle niente. E ho sempre costantemente paura, perché, dopotutto, ha comunque ragione: le devo ancora un caffè.


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