NEW YORK


Dal libro Trucioli di Mondo

La prima volta che capitai a New York avevo più o meno 16 anni. Mi puntarono una pistola alla tempia e dissero: “Fuori i soldi.” Io sorrisi e mi rifiutai. Mi presero allora di peso e mi portarono in cima a un grattacielo di Manhattan. Mi fecero togliere giacca e maglione e mi obbligarono a guardare giù dal muro che strapiombava sulla Park Avenue. Ero a torso nudo con un paio di jeans scuri tagliati in fondo, sentii i capelli prendere la via del vento e il corpo esplodere dal caldo. Feci un respiro e… guardai giù. Avevo le scarpe sciolte.

Dicono che capiti a molti, non di essere derubati o presi in ostaggio, ma di sognarsi in questa città: New York.
La capitale del mondo moderno, della velocità e delle scommesse d’amore.
Non siamo noi a decidere i sogni.
Non siamo noi neppure a decidere come comportarci nella loro realtà.
Credo che tutto questo abbia a che fare con le radici della nostra natura, con le sensazioni che attraversiamo fin da quando iniziamo a rapportarci col mondo.
Il sogno è la pellicola di una parte dimenticata della nostra essenza.
Bah. Forse non è affatto così. Potrebbe più semplicemente essere un gioco che la mente fa per rilassarsi nelle ore libere che le concediamo.
Stanotte non ricordo di aver sognato. Ho dormito intensamente per 5 ore circa.
Ieri sera alle 21,02 ho scoperto gli occhi alla Grande Città. I 16 gradini dell’uscita metro di Clark st sono stati i più corti della mia vita. St.George Tower si perdeva in alto, in alto, dove il torcicollo, da rischio possibile, diviene fatto sensibile. Ho rinunciato prudentemente agli ultimi gradi d’angolo necessari per vederne la punta. Ognuno si arrangia come può per rimanere in salute. I marciapiedi di Brooklyn erano bagnati di foglie e poca luce e ho pensato che non so per quale ragione la mia storia deve passarci sopra. Un pensiero che mi ha fatto compagnia per l’intera serata.
La stanchezza del viaggio e della Brooklyn Lager beer non mi hanno permesso di annotare molti dettagli. Ci sono momenti in cui l’arte di scrivere si fa umilmente da parte per lasciarsi oltrepassare dai doni del vivere. Nessun tipo di penna può scrivere senza prima aver sentito la carne in azione.
Stamani sono carne viva e dalla 23st Station sono uscito come se non mi attendessi nulla.

Non ce l’ho fatta.
Non ho durato.
New York mi ha visto.
Mi è venuta incontro.
Mi ha abbracciato.
Come se la conoscessi da sempre.
Come se mi guardasse una volta e per l’eternità.
Non amo New York.
È lei che ama la gente che vi percorre le estremità.
Ama di occhi e di cuore.
Come se l’umanità fosse tutta la sua ricchezza.
È così.
Questa è New York.

Ho letto tanti nomi stamattina per le strade di Manhattan. Non ne ho trovato uno che non fosse romanzo. Ogni mattone, finestra e cassonetto della spazzatura pare abbia in mente qualcosa. Pare che desideri scrivere, che abbia la vocazione di lasciarsi portare altrove da una persona qualsiasi che le passa accanto. Qua me ne esco allo scoperto, pronto a ricevere la promessa del silenzio che parla alla storia. Devo imparare ad accogliere New York come New York sa accogliere il mondo. Non ha nulla a che fare con l’impero economico mondiale quello che scrivo oggi di questa City. Spero tu possa non fraintendere le parole che mi escono scritte. La New York in cui cerco di portarti, lasciandomici portare, non ha nulla a che fare con il petrolio, le speculazioni finanziarie e il dominio sui popoli. Vanno lasciate da parte le congiure e i pregiudizi prima di un incontro. E la lettura così come la scrittura è un meeting importante.
Al primo appuntamento non è mai possibile sapere tutto. Non è possibile scrivere tutto in una volta così come non si dovrebbe leggere un libro tutto d’un fiato.

D’un libro,
le parole,
van fatte decantare
in spazi d’esistenza propria.

C’è bisogno di un lettore che sappia attendersi mentre si mette in cammino per i viali del proprio esistere.
Ingoiare pensieri, incontri e persone è ciò che riesce molto bene al mio tempo. Ed io, ahimè, sono figlio di quest’epoca che guarda avanti senza cercare radici. Sono figlio del consumo e dell’indifferenza interiore.
Dalla vetrata di un caffè di Lexington Avenue vedo passare ciò che a New York non sfugge. Vedo ciò che da qui non se ne andrà mai, ciò che non compie passaggio ma dimora. Non vedo i bisogni ma i desideri, non gli attributi ma le mancanze, non l’invincibilità dei grattacieli ma i pochi avanzi del cielo. E tutto questo cambierà il mondo. Tutto quello che ci manca, un giorno, tornerà a salvarci.


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