Ci eravamo messi in cammino per il centro deserto di Parigi. Una bottiglia era bastata appena per lasciar transitare il freddo sul vecchio anno, ma appena la rischiarata del cielo perse un riflesso sulla Senna, capimmo in silenzio che era ora di andare.
Una goccia di occhi è sempre necessaria per un vero giro d’inchiostro. La goccia che rimane di quella nottata è la prova che forse, una piccola rifinitura di follia sarebbe essenziale ad ogni dipinto.
A lui non sfuggo mai, a Magritte intendo. Adora riempirmi di idee con i suoi quadri consapevolmente intriganti. Illusioni o allusioni che siano, mi riconosco innamorato del suo genere spiazzante, privo di ogni lettura esclusiva.
Non vedevo un quadro surrealista dal giorno in cui lessi il racconto di un amico tornato da Bruxelles. Anche quel giorno ero stato scosso da un profondo taglio di tela, una divisione evidenziata da colori contrastanti all’interno del quadro. Una separazione così forte che penetrava fino a maneggiarmi il cuore.
Ebbene mi ci è voluto del tempo per comprendere che l’opera di Magritte non è affatto il dipinto che l’occhio vede dentro la cornice, perché quello è solo un lemme tratto di apparenza. L’opera vera è una storia disordinata ed errante, solamente chi prova a navigare nel pertinente spazio di follia presente in sé, potrà arrivarne a capo.
Mi soffermai un poco sulla bottiglia di Cabernet invecchiato, il cofanetto dell’armonica stava appoggiato al bicchiere che per metà aveva già dato. Arrivò la stanchezza e con essa una manciata di buoni propositi rivolti all’anno nuovo.
Avendo perso il film in prima serata, non pensavo di rosicchiare tempo al riposo con un altro svago, e invece, alla vista della penna sdraiata dovetti avvicinarmi immediatamente. Sull’ultima lettera pronunciata dal vecchio timbro, intesi che la conclusione non era ancora stata stilata. Il lavoro era da completare con un pizzico di fervore e di anormalità magrittiana.
Il manoscritto riproduceva l’itinerario che avrei dovuto imboccare, con rispetto alla calma notte dello studente modello e all’alternativa del film in seconda serata.
La prima pagina cominciava descrivendo uno schizzo di lineamenti femminili, sebbene il particolare risultasse invitante per qualche breve rimando, codesta via di foglio non la ritenni però del tutto adeguata.
Per problemi relativi alla notte feci indossare al manoscritto la luce dello scrittoio e l’idea non fu di sgarbo neppure alla penna.
Riaccomodai gli scuretti verdi in posizione notturna.
Approssimai la seggiola allo scrittoio.
D’un fiato entrai…
Sono finito ne “Il vaso di pandora” e qua vi rimarrò fino a quando Magritte non deciderà di aprirlo per rivelarvi la storia. Indosso un cappotto nero ed un cappello alto che non mi sfiora neppure le orecchie. Mi trovo precisamente sulla metà del ponte più antico di Parigi, ad ascoltare l’anima mentre la chiacchiero a Melanie. Il cielo rosso è l’ordine e il disordine di ogni verità, è il pertinente spazio di follia senza il quale non si arriva a capo della storia.
Magritte è immobile dietro di me. Mi accompagna con lo sguardo mentre scavallo Ponte Neuf con un sogno perfetto in cuore. Poco a fianco, la rosa bianca che avrei voluto accettare.
Le finestre notturne sono ancora chiuse, poi per il tratto di cielo ad est il rosso sbarca. I capelli di Melanie e la prima alba dell’anno possono finalmente profumare gennaio.
Oh benvolute genti,
Voialtre mi guardate le spalle, ed io di spalle dovrò trattenermi per confine e per mistero,
Affinché il cielo si occupi della mia anima e del mio volto.
Affinché il manoscritto rimanga nascosto dietro la mia materia.
Affinché Melanie possa interpretare la notte Parigina di Ponte Neuf
e la custodisca come un cortese ricordo di penna.
“Uno studioso al microscopio vede molto più di noi. Ma c’è un momento, un punto, in cui anch’egli deve fermarsi. Ebbene, è a quel punto che per me comincia la poesia.”
René Magritte