a Melanie e gli amici di Hermagor
Il campanile della chiesa di St. Jakob di Villach, sotto le feste invernali, è una cascata frizzante di lumini. Un lenzuolo di stelle che cala dal primo foro gotico del campanile fino al piazzale in pietra.
È il primo giorno dell’anno 2012: è domenica. Le facce che capitano di qua sembrano distese. Gli occhi delle persone che lavorano qui da anni, sono rannuvolati, a tratti parrebbe addirittura in collera. D’altra parte, in questi luoghi, non è semplice trovare persone che si rallegrino della felicità dei visitatori. Se quest’ultimi poi vestono come italiani, a maggior ragione. Non lo fanno per dispetto. Credo piuttosto che guerre e storia li abbiano educati ad un occhio vigilante per le facce provenienti da sud.
La neve è sui bordi delle strade e intorno alla rifinitura dei caminetti. Una ragazza poco fa si è appoggiata alla ringhiera della pista di pattinaggio con foglio e matita. Non volevo spiarla. In pochi minuti ha lasciato uno schizzo perfetto.
Lo scorcio di nubi al tramonto. Le alte vetrate della chiesa. Le pellicce delle donne anziane in passeggio. Tutte cose che andrebbero disegnate o, ancor meglio, dipinte su tela più che descritte a mano gelida.
Non ho mai saputo disegnare bene. Anche per questo, forse, sento il bisogno di ringraziare il foglio con qualche racconto.
Melanie è sola al tavolo del bar. Senza sigaretta, riprende il lavoro che qualche mese fa ha concordato con il relatore. La tesi di laurea è un compito arduo ed elegante. È la conclusione di un lungo percorso. Lo spettacolo che va finalmente in scena.
La stesura avviene in camera, in uno studio o nella biblioteca del paese, ma non è così per ogni studente.
Per Melanie la tesi è un collage, un puzzle. Fogli da stanza. Scarabocchi e idee da biblioteca.
Le pagine più belle, però, le scrive sul tavolino ottocentesco di un bar a luci soffuse.
Il fiume che bagna Villach è stretto e freddo, vorrei conoscerne il nome. Non so bene da cosa nasca questo mio interesse per i nomi. Una volta non ero così.
Che stia aumentando la sete di conoscere il mondo?
Dicono che invecchiando, si abbia bisogno di punti di riferimento.
Dare loro un nome aiuta forse a tenerli stretti?
Chissà. Magari invece vorrei tenere quel nome in bocca solo per sentirne il sapore.
Ha i capelli rossi Melanie. Fa una pausa di cioccolata con panna prima di rivedere la punteggiatura.
Vorrebbe mettersi una sigaretta in bocca ma non può. Eppure in Austria è possibile fumare all’interno dei locali quasi dappertutto.
Al tavolo, Melanie, è sola. Di fronte a lei, un ragazzo beve del vino.
Melanie non fumerà.
Il locale Schumis è tra il fiume ed il campanile, nella prima piazza passato il mercatino di Natale.
Il cameriere porta una camicia a quadri e serve con gentilezza le persone all’ingresso. È un ambiente piccolo, un unico corridoio di lunghi specchi che termina con la porta “Toilette”.
Fumo. Lingua germanica. Macchina da caffè. Rumori e profumi che girano e risuonano sulla copia innocente delle forme. Un valzer perfetto per osservare ogni mossa.
Gli occhi vitrei dei presenti attraversano conversazioni d’inverno. A volte tacciono. Danno per un secondo la coda all’ingresso. Poi, dal rimando dello specchio, li vedo riprendere parola e inverno.
Trattengo un sorriso sotto il cappello. Da giorni, ormai, questo tipo di diffidenza mi è diventata simpatica.
Resto immobile per qualche attimo.
Lascio che l’ambiente faccia tutto al mio posto.
No, non appartiene come sembra al ramo della pigrizia il suddetto comportamento.
Mai respirato pochezza oh anime lettrici?
Alle volte mi è capitato di respingerne l’odore per tempistica di consegne. Ebbene la pochezza, è l’unica che riempie di mondo la mano dell’artista.
Sicuri voialtri che neanche una volta avete fatto scegliere alla musica?
L’ambiente impasta idea e voce sul foglio. L’infinito bussa. La pochezza accoglie.
Le scarpe del cameriere non sono nate per passeggiare con quella camicia.
Il ragazzo accarezza la gola con l’ultima lettera di vino.
Dal portone della chiesa giunge il coro dei bambini di Villach.
Melanie ha finito la prima parte del suo lavoro. Si alza con la borsa. Fa un cenno con la mano. Sul tavolo ottocentesco rimangono i fiori e il posacenere. Un mozzicone fumante e una tazzina rigata di cioccolata. Di fronte, sull’altro tavolo, un calice con qualche granello di fondata.
Il bancone del locale Schumis è sgombro di ogni ordinazione. Mi avvicino per salutare in inglese il cameriere. Di scarpe e camicia, però, nessuna traccia.
Vicino alla cassa, un bigliettino. Un nome: “Drau.”
.
Trucioli
A filo.
Di.
Laurea.
Pattino.