ALL’USCIO DEL MARE


Avviene
un lento piacere,
nel vedere il mare arrivare fin qua,
giungere a sfiorare
le zampette de’ gabbiani,
le punte de’ piedi della gente
che proviene
dall’inverno o dall’ufficio,
o da una cura di smalto
nel pomeridiano oziare.

Segna le coste quest’acqua salata, le lavora, le consuma. Mentre tutto accade al di qua degli scogli, la luna sale dall’orizzonte per apparecchiare il cielo alle stelle, come una madre prima ancora che cali il sole rincasa a preparare la tavola per i ragazzi. È madre la luna, lo è sempre stata, fin dai tempi di Galilei e ancor prima, quando popoli di ogni tipo facevano falò e danze indigene chiedendo benedizioni sotto la sua luce piena. Madre delle madri, regina del cosmo, dell’ordine. E in certe notti d’estate non abbiamo alternativa davanti a questa vita se non salpare, per mare o per cielo. Andarcene da qualche sconosciuta parte, attraversando processi interiori sconosciuti alla scienza, incalcolabili sospiri di vita nascosta. Salpiamo per campi di frumento e nuvole orientali, attraversiamo luoghi con palme e zero vento, passiamo nei dintorni di santuari spalancati e vuoti, vicino ad architetture gotiche decadenti e stadi di baseball in costruzione. Sostiamo in verande con zanzariere bucate, passiamo sotto porticati pieni di foglie, saliamo su carri di carnevale, vediamo bivacchi di legno invecchiati su sentieri interrotti.
C’è tutto di noi in questi viaggi interfacciali e interplanetari. In verità, noi siamo quel che vi troviamo dentro, in esti strani territori che lo scendere in noi ci mostra.
Il mare è la forma dei panorami interiori, è l’aiuto che l’eternità ci ha inviato per provare a comprenderla. Noi, siamo tutti i luoghi pensati e poi visti e attraversati. Siamo i porticati e i carri di carnevale, i campi di frumento e le verande.
Ed ecco qui che all’uscio del mare mi accomodo a sedere. Il sole tramonta, la luna albeggia, l’uomo ci sta in mezzo e dentro. Sta dentro il passaggio che si lanciano in profondità, da luce a luce, da colore a colore. Mare e cielo colmano l’arco della gittata, accartocciando la terra di mezzo entro alla quale la mia immobilità giace.
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All’uscio del mare, l’uomo sta:
microcosmo di sogni,
elemento d’un ordine spazio-temporale
che r’apparire in eterno non potrà.
E lento è,
il piacere,
nel vedere il mare
arrivare fin qua,
da’ gabbiani e me
senza parlare.


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