Nella folle afosa folla di gente vestita per bene, spalleggio. Voce del verbo spalleggiare che a mio riguardo pullula in sé di significati giusti, indefiniti e notturni.
Spalleggiare è per il vocabolario un’azione di difesa e appoggio verso qualcuno, una quasi intesa, un atto che sostiene. Nel grande salone di bellezza venduta bene dai vocalist, diggei e ballerine dalla pelle scura e culino ritto, mi trovo dunque a spalleggiare. Sono dentro a questo sistema, per la verità più innocuo che altro, spesso privo di un senso compiuto o di una nuova utilità. Del resto funziona da sempre così, quando tiri fuori il portafogli lo fai sempre a sostegno di qualcuno, che tu lo voglia riconoscere o meno: un kebabbaro, una casa editrice, una discoteca. Spalleggio la folla in mezzo alla folla. Sostengo questo locale e tutti coloro che dentro ci sono. Non mi fermo a rifletterci troppo, potrebbe essere controproducente per il mio stato d’animo. Altrimenti mi chiederei con il sopracciglio di Carletto Ancelotti:
Mi appartiene davvero l’essere qui?
In quale altro tempo di me stesso potrei essere?
Spalleggiare nel senso di muoversi di spalla. Allargare le maglie della massa saltante e bevente (o bevuta) per andare in un’altra zona del locale, per cercare un luogo più speciale o più normale, incontrare una persona bella o impersonale oppure una quasi quarantenne che, palesemente fuori stagione, stampa rossetti sulle guance del mondo. Potrebbe essere che siamo qui a casaccio, in uno spazio senza spazio, pigiati a seguire il ritmo e osservare la superficie. Qualcuno dice di divertirsi. Io sono fra questi, anche se potrei divertirmi in un centinaio di altri modi almeno, forse tutti più salutari e meno costosi.
Perché poi c’è spalleggiare nel senso di passare il tempo “tanto per”, entrare in posti così perché tutti ci entrano e perché altrimenti, con chi starei se tutti i miei amici vengono qui? Insomma “che palle…” ma ci sono anch’io, esisto, e se vengo qui almeno qualcuno se ne accorge, credo.
Non vorrei giudicaste male. Non sto “sputando nel piatto in cui ho mangiato” (espressione tanto cara all’amico Jonny), sto solo cercando di fare un ragionamento a voce alta e penna aperta. Anche perché ci tornerò altre volte in luoghi del genere, non lo nego. Non tante tante volte, ma qualche altra volta di sicuro. In fondo mi piace stare in mezzo a nuove persone, parlarci se possibile, dire due bischerate con gli amici, osservare quello che fa il resto della gente, dove va e perché fa andare un luogo invece di un altro. Mi chiedo spesso quali scelte di fondo faccia la mia generazione in questo tempo di incertezze e futuri vaghi. Verso dove sceglie di andare e per quale ragione, sempre che una ragione vi sia.
Direi che quando vado in discoteca, ci sono dentro ma sempre un pochino da fuori, ma ci sono dentro, da fuori, ma dentro. Contestualizzato il locale, reso noto dentro di te che non gli apparterrai, appurato che sai divertirtene al di fuori e che vivi l’evento di esserci inside in maniera transitoria e non per questo meno profonda e spontanea, cristallizzato il fatto che ogni luogo con tante persone è opportunità di relazione e scoperta di variegata bellezza, allora sei a cavallo. Cioè sei libero, intendo. Sei già nell’“ama” e puoi evidentemente fare “ciò che vuoi”, direbbe il buon Agostino d’Ippona.
Prima d’uscire c’era da passare dal guardaroba, il paese dei giubbotti, una sorta di armadio campeggiato, camper armadiato con due donne al volante. Tommi, camiseta blanca e bretella negra, stile new smart vintage, punta gli occhi dentro la finestrella dalla quale le donne si affacciano. Sta lì in silenzio, con gli occhi luminosi come un faro. Fasci di luce sull’oceano. Sta arrivando il nostro turno. Si guarda attorno. È sul promontorio della scogliera ad attender che il pensiero si concretizzi e giunga fino alle labbra. D’un tratto, una smorfia lo fa curvare verso di me. Punta di qua i due fasci di luce e, in un fiorentino lievemente strascicato dichiara: “A quest’ora c’è rimasto chi non gli basta.”
Proprio così caro brillino amico Tommi. E a noi, per stanotte, diciamoci la verità, ci basta.
E niente.. Questo articolo rimane il mio preferito.. 💜
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Grazie per averlo fatto rileggere anche a me. Erano degli anni che non lo facevo!
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L’espressione.. In questo grande salone di bellezza mi fa sorridere..😉
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Rende abbastanza 😎💅
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Okkkk.. Noi quasi quarantenni ti perdoneremo😁. Grazie per il chiarimento. A presto
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Grazie a te per aver scritto! Buona settimana! ✍️
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Davvero pensi che una quasi quarantenne sia ‘palesemente’ fuori stagione all’interno di una discoteca?.. Quindi fuori tempo massimo?.. Io non mi sento così sinceramente, certo ovviamente bisogna scegliere le serate a noi dedicate, ma non mi sento così fuori posto. Anzi
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No che non lo penso. La questione qui non sta nella quasi quarantenne. Fuori stagione è una quasi quarantenne che esaspera atteggiamenti da ventenne con i ventenni in serate per ventenni.
Non ne va fatta una questione anagrafica è una questione di contesto, di atteggiamento, di percezione di sé stessi e della realtà intorno.
Ho voluto usare un’espressione un po’ fortina per estremizzare il concetto, non era mio avviso giudicare i e le quasi quarantenni che vanno a ballare, mi dispiace se è passato questo. Anche perché tra poco ci arrivo anch’io all’anagrafe 😉 e sinceramente nelle serate giuste c’è da divertirsi ancora! 🕺
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L’amicizia,quella vera è per sempre.. L’AMICO CARO
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Ogni tanto, amico caro, sento la tua voce mentre scrivo… 🙂
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