Dentro il Caffe Bar Bijeca la bionda sta litigando.
Non so cosa sia avvenuto di preciso. Dell’idioma croato intuisco solo pochi suoni di provenienza latina. Il resto mi pare un gioco aggrovigliato di consonanti. È evidente che sono ignorante. Non “Nel senso che ignoro” come direbbero i comici Aldo, Giovanni e Giacomo. “Ignorante” nel senso del “non conoscere ancora”.
Non sono riuscito a imparare tutte le lingue del mondo come sognavo da piccino, perlomeno non ancora.
Il litigio si è trasferito tra i fornelli della cucina. Chiusi lì, la bionda e il moro non si fanno sentire.
L’aria è tornata docile sugli otto tavolini apparecchiati con tovaglia arancio. La zona tavolini è strutturata a forbice perché il Bijeca fa angolo tra una viuzza in discesa verso il mare e un falsopiano che sale verso la chiesa. I rumori delle due strade si ostacolano, lo fanno per parecchio. Poi però, a uno storico certo punto, arrivano a perdonarsi. Tornando insieme elevano l’atmosfera dei locali d’incrocio e formano un unico e originale aggancio sonoro: parole, passi di infradito, scogli e aeroplani. Qui nel mezzo, ancora una volta tra il dire e il mare, la mia birra di viaggio.
Sto pensando a quanti abitanti di queste zone dell’Istria sono stati ignorati, dimenticati o respinti dall’Italia. A quanti pianti di identità sono scorsi per queste terre e quante lacrime bagnano ancora oggi il mare che da qui si apre su sponde croate, slovene e italiane.
In molti appunti di guerra vengono nominate con orgoglio le città dell’Istria nel loro nome italiano. È impressionante come ogni minuscolo paesino possa avere identità croata, italiana e insieme slovena con profumi austriaci. Affascinante e commuovente: la maggior parte di questi tetti, fino alla città di Fiume, ha visto piovere lacrime e sentito alzarsi poesie dei soldati.
Soldati.
Va riscritta questa parola qua. Perché non è una parola. Sono uomini, gente che per onore o per errore, per ordini o dis-ordini superiori si è trovata a fare la storia.
E sbaglio pure a scrivere che sono “gente”. Genericamente gente. No. Non sono gente. Sono i nostri nonni.
Lascio tornar sui tetti di Medulin lo sguardo,
in-vadendomi per un po’:
fuori dal mare dolce
dentro al salato pensare.
Quanto ancora di quei lontani e vicinissimi soldati
c’è
nello sconfinato e circoscritto territorio dell’Istria!?
Oltre la viuzza che scende verso le spiagge si apre la piazza principale di questa indecifrabile cittadina estiva. Indecifrabile per una ragione su tutte: che non è possibile conoscerla in appena tre giorni. Forse bisognerebbe guardarla d’inverno, senza gli obbligatori abusi di happy hour e musica estiva. Sentirla nei suoi veri umori, lontana dal traffico di una forzata giovinezza bi-settimanale alla quale siamo abituati in vacanza.
Forse bisognerebbe starci soltanto dentro, cercando di non esisterci, ascoltandone i litigi e i baci istriani, le onde adriatiche e qualche messa cantata.
Il litigio nel frattempo è finito. Non bene direi ma neppure così male. Forse è solo cominciata una temporanea pace armata.
Lui se ne è semplicemente andato via. Lei è rimasta a servire birre Ozujsko alla gente.
Anche se a quest’ora è forse troppo tardi.
Anche se a quest’ora è forse troppo presto.
A quest’ora ci sono solo io, sulla penultima tovaglia arancio a cercar di pensierare cosa accada di nuovo e di antico in questo viaggio con birra.
La bionda è appoggiata alla porta in legno, sulla soglia del Caffe Bijeca ma in perfetto trip di odio e amore, guerra e pace. Bellissimamente assorta.
Non so come si chiami e sinceramente non vorrò saperlo mai.
Istria.