Non c’è niente di meglio che passare un’intera mattinata a studiare filosofia e poi, a metà di un pomeriggio senza nome, partire. Andare. Portare in città il proprio sconosciuto cognome.
Fuga da Alcatraz.
Dove Alcatraz non è prigione ma isola. Museo.
Inzuppato di filosofia me ne vado, grondante di pensieri, per questa solinga sera senza saper di me. E la città è piccola ma pur sempre grande. E la vita è breve ma pur sempre lunga, abbastanza per interrogarsi. Lascio a casa ciò che conosco, libri e appunti, palloni e medaglie, riparto dal nulla, dallo zero positivo. Partendo ristabilisco una certa parità. Paritando ristabilisco una partenza, equilibrio umano del doversi ripresentare al mondo senza esseri ne averi. Con la sola coscienza dell’andare avanti per vie buone, di entrare nella teoria vivendo la realtà tutta.
La filosofia può divorarmi se ne abuso troppo, può appesantirmi, addirittura rattristarmi, può tirarmi fuori ciò che non credevo esistere. Solitamente lo fa in bene, non sempre però.
Fuga da Alcatraz.
Dove Alcatraz è America, Occidente impazzito, modernità tecnologicamente liquida.
Ora è l’ora, tempo di incontrare sconosciuti qualunque, impattare sulla strada voci diverse, provare a raccontare in meno di un minuto chi sei in un’altra lingua. Allenarsi alla vita pubblica e al creare, allenarsi al pubblico e alla vita creativa.
Ogni cosa di questa zingaresca e incerta solitudine mi piace. Mi fa perdere, ragionare, morire e vivere. La trovo una buona condizione per riappropriarmi di ciò che sono, di ciò che ho scoperto essere anche attraverso la filosofia.
Fuga da Alcatraz.
Dove Alcatraz è confine, mura, tavolo, libri.
Dove Alcatraz è camerina. Si può imparare molto lì dentro, ambiente caotico al punto giusto per concentrarsi, silenzioso e personale. Necessario è però uscirne, varcare l’uscio che mi fa imparare la disciplina e la ostacola; che mi nasconde il mondo per affinare lo sguardo col quale un giorno osserverò città e deserti lontani, oceani e montagne.
Fuga da Alcatraz.
Dove fuga non lo è nel senso letterario del termine. Non è strappo, non è taglio, non evasione. È solo andare in un filo di vaghezza, in un ondulato senso di esistere che chiama fuori e prolunga quello che c’era verso quello che c’è, nel tempo che mi è rimasto per vedere la vita.