#GrazieLeicester
Nella vita, a volte, si commettono grandi errori e si danno facili addii.
Nella vita ci sono occasioni uniche.
L’uomo è animale razionale, eppure sogna. Sogna ogni giorno qualcosa di grande o di piccolo, un dettaglio che possa fargli dire: “vale la pena vivere anche solo per questo.”
Sogna di poter raggiungere una spiaggia segreta, di vedere l’aurora boreale in cima al mondo, di scrivere una canzone d’amore e baciare la donna che ama, di avere una promozione o un ufficio, di accarezzare una persona lontana, di raggiungere un semplice obiettivo segnato sull’agenda all’inizio dell’anno.
L’uomo sogna la libertà, la normalità.
L’uomo fa sogni di campo, di platea e di successo ma anche silenziosi, sogni mai sussurrati che riposano inquieti nelle celle polverose del nostro cuore. Laggiù, però, da qualche parte esistono. In giorni come questo ne avvertiamo la presenza.
Il sogno è il motore del futuro, delle azioni e delle promesse che ognuno fa a se stesso e agli altri. A volte sognare troppo può far male, può devastare, distrarre dalla realtà delle cose. Alla lunga c’è comunque solo un antico rimedio per non ammalarsi di sogni: sceglierne uno e scommetterci tutto ciò che siamo di meglio.
È il 2 maggio 2016. Un giorno indimenticabile.
È così, perché lo sport è vita, perché lo sport insegna a vivere, piangere, perdere, sognare e vincere.
2 maggio 2016. La storia del calcio va di nuovo ri-ambientata. A Londra mancano una manciata di minuti alle dieci di sera. Il Leicester diventa campione di Inghilterra con due giornate di anticipo. Un gruppo di scarti calcistici ed esistenziali ha spazzato via tutti i pronostici, le statistiche, tutte le leggi economiche e manageriali che gravitano attorno al calcio. Il mister italiano Claudio Ranieri è il capo di un’incredibile banda, composta da uomini come bomber Vardy, che pochi anni fa si guadagnava da vivere con un contratto part-time in fabbrica; uomini che danzavano nei campetti amatoriali della Bretagna come la “farfalla blu” Mahrez; che andavano al campo con il braccialetto elettronico alla caviglia per gli arresti domiciliari rimediati dopo una rissa da pub o che hanno scontato pene, come Simpson, con l’obbligo ai servizi sociali. Per non parlare dei pilastri difensivi, il biondo Huth e capitan Morgan, che all’inizio dell’anno i giornali inglesi definivano più simili a una “coppia di buttafuori” che una coppia di centrali difensivi.
Ma non è di questo che vorrei scrivere. Ci penseranno tanti giornalisti nelle prossime ore a raccontare particolari eleganti e meno, di questi scomodi vincitori d’Inghilterra. Non ho deciso di sedermi a scrivere neppure per raccontare del miracolo calcistico in sé, che senz’altro trascina aspetti di vario tipo, legati a vicende di gol e pali, di fedeltà e duro lavoro tattico, di un intero settore della curva riservato agli anziani di Leicester in trasferta per tifare la squadra.
Si sbizzarriranno davvero stavolta i giornalisti. Qualcuno, immagino, farà presto un film sulla vicenda. Altra gente riuscirà perfino a farci dei soldi su questo folle miracolo sportivo.
A me, stanotte, ciò che mi trattiene dal dormire è una riflessione ben precisa.
Questi normali ragazzi di paese o di città stanno vivendo un incrocio umano di storie nella storia, hanno piantato una conquista, un ritorno dignitoso alla vita. Mi auguro con il cuore che sia così. Questi ragazzi rappresentano un po’ tutti i calciatori dilettanti e amatoriali del mondo, le periferie calcistiche più insperate, i campetti più lontani e dimenticati, i palloni più sgonfi e le scarpe più sfasciate, rappresentano il giocatore che viene scelto per ultimo dai capitani, quello meno bravo, che commette più errori.
Per questo il 2 maggio 2016 è un giorno indimenticabile: è la vittoria di Davide su Golia, il segno del ribaltamento, lo scatenarsi di quell’uragano che 132 anni fa, nel lontano 1884, un gruppo di ragazzi della Wyggeston School fece nascere. Uragano Leicester.
Per questo il 2 maggio 2016 è un giorno memorabile: perché stavolta è andata molto diversamente da come si pensava fosse scritto. Perché non sono stati i giocatori a credere nel sogno di vincere il campionato. (O almeno non subito). All’inizio avevano solo bisogno di credere nella loro parte migliore. Sapevano che il calcio prima o dopo, quella maledetta parte migliore gliel’avrebbe strappata fuori. È stato il sogno stesso poi ad andare a cercarli.
Ci sono sogni insognabili che iniziano strada facendo perché cominci a sentirteli bollire dentro, nel sangue, nella dignità da riconquistare, in una nuova sorprendente possibilità che ti viene concessa. Incredibili. Perché quando comprendi di averli sognati, sono già realtà.